San Prisco. Una oliva da tavola, con una polpa così morbida da riuscire a separarla dal nòcciolo con due dita, dal colore che, al momento della raccolta a piena maturazione, oscilla tra il rosa e il nero brillante: così si presenta l’oliva aitana dei Colli Tifatini, nel Casertano, appena entrata a far parte dei Presìdi Slow Food.
“È uno dei tanti esempi di biodiversità della nostra zona, ha un grande valore storico-ambientale” sottolinea Alessandro Manna, che del neonato Presidio è il referente Slow Food. Ma soprattutto “è buona, un piacere da mangiare e facile da usare in cucina”.
L’aggettivo aitana significa di Gaeta, ma quella dei monti Tifatini, i colli subappenninici che abbracciano a nord Caserta spingendosi fino a Capua, non è un clone dell’oliva itrana: “La ragione del nome è semplice – spiega Manna –. Un tempo, molte olive da mensa particolarmente buone venivano chiamate così”.
Non vi è però dubbio sull’unicità genetica della cultivar dei monti Tifatini, accertata negli ultimi anni anche dalle analisi di laboratorio condotte dall’Istituto di bioscienze e bio risorse del Cnr di Perugia e dal Dipartimento di scienze e tecnologie ambientali, biologiche e farmaceutiche dell’Università degli studi della Campania “Luigi Vanvitelli” di Caserta. Dopo essere salita sull’Arca del Gusto, al termine di un percorso durato un paio di anni l’oliva aitana è finalmente diventata Presidio Slow Food.
I produttori che aderiscono al disciplinare sono una decina e Giuseppe Santoro è il loro referente: “Potrei dire di essere cresciuto sotto un albero di olivo – racconta –. Qui da noi ci sono tante varietà, alcune solo da olio, altre da mensa, altre ancora con duplice attitudine. L’aitana era l’oliva da tavola per antonomasia, quella dei giorni di festa. Non esagero se parlo di una sorta di sacralità, intesa come forma di rispetto di un alimento fortemente caratterizzante”.
L’aitana dei Colli Tifatini si raccoglie tra novembre e gennaio, quando la superficie del frutto si ricopre di una velatura pruinosa. Poi viene deamarizzata in una soluzione di acqua, sale e aceto rosso, un metodo tradizionale adottato ancora oggi. Se in tavola è spettacolare, magari in un sugo alla puttanesca oppure sulla pizza, come già viene utilizzata in diversi locali della zona – prosegue Santoro –, come olio, invece, è neutro, per via della scarsa quantità di polifenoli, è ha una resa bassissima.
“A San Prisco, circa 200 ettari dei quasi 8 chilometri quadrati di superficie sono oliveti – continua il referente dei produttori –, ma non tutte le piante sono aitane. Complessivamente parliamo di una piccola produzione. Quest’anno, anche a causa della crisi climatica, purtroppo non è una buona stagione: complessivamente, tra tutti noi produttori, il raccolto sarà tra gli 80 e i 100 quintali”.
“Per mettere a punto il disciplinare – ammette Santoro – sono andato a chiedere qualche consiglio a mia mamma, che in famiglia si è sempre occupata della cernita delle olive. Mi ha aiutato a ricordare alcuni passaggi della preparazione della salamoia… ed è stata anche l’occasione per trascorrere un po’ più di tempo insieme”.
In campo, invece, le idee sono chiare da tempo: “Rispetto della natura, del consumatore e dell’operatore, perché se si usa la chimica si danneggia anche chi lavora e inala certe sostanze. Si parla tanto di sostenibilità sociale in agricoltura, ma è una cosa seria e non la si può promuovere soltanto a parole”. Oggi, accanto a un paio di produttori esperti, c’è un gruppo di giovani impegnati a recuperare gli oliveti dei nonni.
“Confido che il riconoscimento come Presidio Slow Food – conclude Manna – possa essere un volano anche per la tutela dei Colli Tifatini: se l’olivicoltura diventa un valore economico competitivo, allora potrà essere anche un sostegno al progetto del parco delle colline Tifatine, che promuoviamo da tempo”.