Santa Maria Capua Vetere. Protestarono più che per le mascherine o i tamponi soprattutto perché volevano parlare con il magistrato di sorveglianza per ottenere la detenzione domiciliare, i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere protagonisti della protesta del 5 aprile 2020, in piena pandemia da Covid-19, seguita il giorno dopo dalla reazione degli agenti penitenziari, che effettuarono una perquisizione straordinaria divenuta, per usare le parole del giudice per le indagini preliminari, “un’orribile mattanza“. La circostanza è emersa nell’udienza del processo sui pestaggi del 6 aprile 2020 tenutasi nella giornata di ieri all’aula bunker del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in cui sono imputati 105 tra agenti penitenziari, funzionari del Dipartimento Amministrazione penitenziaria e medici dell’ASL Caserta.
Durante il controesame del teste Fabio D’Avino, detenuto all’epoca dei fatti a Santa Maria C.V. ed attualmente recluso ad Ariano Irpino, costituitosi parte civile nel processo, l’avvocato Luca Tornatora, difensore dell’imputata Annarita Costanzo, ufficiale della penitenziaria, ha infatti chiesto quante proteste D’Avino avesse fatto con gli altri detenuti prima del 6 aprile.
“Facemmo almeno 4-5 proteste, – ha detto D’Avino – per come andavano le cose al carcere di Santa Maria Capua Vetere riconosco che abbiamo tirato troppo la corda, ma allora il mio obiettivo era essere trasferito, perché Santa Maria è un abuso costante“.
Anche il 5 aprile, quando i detenuti misero le brande di traverso davanti all’ingresso del reparto Nilo dopo che si era diffusa la notizia di alcune positività al covid tra i reclusi, lo scopo era quello di “farci dare le mascherine – spiega D’Avino – ma anche di parlare con il magistrato di sorveglianza Marco Puglia per vedere di uscire di qua“. “C’era il decreto sulla detenzione domiciliare per ridurre l’affollamento delle carceri durante il Covid, volevate sfruttarlo anche voi?” chiede il legale – D’Avino risponde affermativamente ma dice di non ricordare se avesse presentato istanza. Il difensore ricorda al teste che nel corso delle indagini aveva riferito che aveva fatto l’istanza di detenzione domiciliare, ma gli era stata rigettata perché delinquente abituale. “Quando parlai con Puglia – ammette poi D’Avino – questi mi disse che le istanze di detenzione domiciliare erano state tutte rigettate perché al Nilo erano reclusi tutti detenuti pericolosi e recidivi“.
Nell’udienza è poi emerso anche come lo stesso D’Avino, dopo i fatti del 6 aprile, sia stato interrogato dai PM sempre negli stessi giorni dei compagni di cella, anche loro vittime dei pestaggi, circostanza che avrebbe potuto inficiare la genuinità della testimonianza. “Parlavate con i vostri compagni di ciò che avevate detto in Procura, nonostante il pm vi avesse ammonito di non farlo?” chiede l’avvocato. “Si – ammette D’Avino – anche quando dopo il 6 rimasi quindici giorni in isolamento al reparto Danubio. Lì potevamo passeggiare insieme“.
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