Caserta (Ferdinando Silvestri). Come spesso accade per tutte le verità imbarazzanti finite nei più lugubri scantinati della memoria, anche il 4 agosto del 1943 è stato archiviato nei miserrimi dimenticatoi della storiografia. In un solo giorno, maledetto come il responso nefasto di una sciagura annunciata, sotto le bombe degli “Alleati” persero la vita più civili a Napoli che nel resto d’Italia. Non è la prima volta che il sangue versato dalla Campania scompaia come un delirio nel nulla.
Le stragi sabaude ai danni delle popolazioni di Casalduni e Pontelandolfo in provincia di Benevento dell’agosto 1861 vengono ancora oggi blandite ed etichettate dai libri come inevitabili “incidenti di percorso”. Come se l’ipocrisia dell’uomo comune fosse il verbo di chissà quale Dio, di chissà quale censore abilitante, di chissà quale condono istituzionale. Come se ci fosse una ragione divina per sdoganare gli atroci supplizi ai danni di contadini inermi colti nel sonno dal fuoco, dalla brutalità, dalle sevizie e dalle pallottole di gente senza scrupoli.
Nell’immagine: eccidio di Pontelandolfo e Casalduni, agosto 1861
I killer erano sicari in divisa al soldo di commercianti, affaristi, imprenditori e occhiuti oligarchi in basettoni e occhialini. Nei ritratti di metà Ottocento, essi sogghignavano come demoni in procinto di rivelarsi, come satanassi assetati di denaro e potere. Eppure sono celebrati tuttora da eroi nazionali. Primeggiavano per la loro bramosia di “unire l’Italia” con il sangue stillato dai cadaveri di poveri cristi, puniti dagli stenti prima che dagli invasori.
In Campania agosto è tempo di morti: non c’è pace per chi dimentica in fretta. E’ questa l’infausta coincidenza messa da parte dai libri di storia per ripulire le coscienze bisunte di quanti ancora ostentano il tricolore “liberato” dal predatore venuto da molto lontano.
La storia non ci mette molto a svincolarsi da gravami ed orpelli in odore di morti ammazzati. Come un serpente viscido e velenoso, la narrazione ci mette poco a cambiare la pelle, a “risorgere” e sfoggiare la sua nuova livrea. E lo fa in religioso silenzio, senza proferire obiezioni né ammonizioni, per affrancare anche quelle mezze coscienze in saldo di fine stagione, costi quel che costi. Ma è noto che “Napoli è una “carta sporca”, la città dei “lazzari felici” che assurgono alla genia più autentica e tipica della Campania e del Meridione più in generale. Napoli, icona, ragione e sostanza di umanità, malgrado il colera, fin dentro il suo “ventre”. Quello svelato nei romanzi di Matilde Serao che, stringendo a sé l’amata città come una figlia ferita, ne riconobbe essenze e contraddizioni. Napoli oltraggiata e mortificata, oppressa e tradita, vessata e insanguinata più di tutte le città d’Italia sotto la scure impietosa dei bombardamenti ”yankee”.
Quasi venticinquemila morti in più che differenza possono fare sulle pagine vuote dei libri di scuola? Tanto vale sottacere i duecento raid aerei e le bombe che si abbatterono sulla città di Vico come i lapilli di una tempesta di fuoco. Sotto la polvere di quelle mura distrutte i morti finiscono presto nelle fauci di predicatori e sofisti perchè non hanno più nulla da raccontare. Quelle mura greche reincarnate più volte nel cuore del centro storico di Neapolis mostrano ancora sfregi disumani e ferite aperte.
“Bombardamenti a tappeto!”, ordinarono gli americani agli inglesi senza troppi sotterfugi. La distruzione degli obiettivi strategici, al mondo, non bastava più: serviva quella dei napoletani ma, solo per il “bene comune”. E fu così che decine e decine di migliaia di inermi sventurati persero la vita, mentre camminavano in strada. Mentre abbracciavano i loro piccoli ricolmi di belle speranze. Mentre le famiglie di San Domenico Maggiore si riunivano intorno ad una tavola disadorna per un pasto frugale. Mentre pregavano stringendo la Croce nella chiesa di Santa Chiara. Mentre rincasavano a passo lesto pensando al desco nudo e alle calze da rammendare. Mentre fuggivano nei sotterranei di Palazzo Serra di Cassano pensando ai loro avi caduti sotto i crolli dei terremoti quattro secoli prima.
Mnemosine, la Dea della Memoria che, forse, incontrò Parmenide di Elea nel suo viaggio alla ricerca della “Verità”, oggi, viene ancora arsa sulle fiamme infernali dell’indifferenza da omertosi imbonitori, sobillatori dai volti angelici e vassalli a mezzo servizio. Senza memoria non c’è giustizia, né verità. Era questo in buona sostanza il vaticinio del pensatore cilentano annunciato ad Elea duemilacinquecento anni or sono. Ma, come scriveva Vico oltrepassando gli angusti confini di Spaccanapoli, l’uomo raggiunge l’apice della sua barbarie proprio quando si illude di aver dato la prova più alta della sua civiltà, solo presunta. Una civiltà dimentica del suo passato, dei suoi orrori, delle sue radici, dei propri valori e delle sue vittime. Una “civiltà” che non impara dai suoi errori. Una specie di civiltà che, spesso non brilla neanche fra le stelle di una bandiera a strisce. Se “civiltà” può dirsi un volgare surrogato di umanità che gioca a dadi con la sorte degli altri senza neanche scomporsi, allora, tanto vale tornare agli armenti. In ogni tempo l’uomo si lascia sedurre dal terrore del suo stesso oblio straziando la carne degli altri senza provare disgusto. Alla Pignasecca, nelle notti d’agosto c’è chi giura di sentire gli strazi di quelle vite spezzate nell’aria che ancora puzza di accanimento, ferocia e compromesso morale.