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Cultura

”Casa Hirta”, l’arte dei numeri non è per tutti

Caserta (Ferdinando Silvestri). La mitologia greca, densa di messaggi sempre attuali insegna che la testa di Orfeo seguita a cantare anche dopo la sua decapitazione, avvenuta per mano delle furenti sacerdotesse di Dioniso, le Menadi. Un’allegoria che suggerisce una inedita riflessione: l’arte in tutte le sue sfaccettature e declinazioni sopravvive ai mutamenti di usi, costumi e, soprattutto al tempo.

Difatti, se nel corso dei secoli cambiano le tecniche agricole, non muta di certo la grandezza dei dipinti di Piero della Francesca nei quali vengono rispettate le “proporzioni auree” afferenti al numero periodico 1,618… In pratica l’aritmetica, legata alla musica nelle sue diversificate accezioni dalla parola “ritmo”, penetra nell’universo delle manifestazioni eterne, perfette ed immutabili fino ad identificarvisi.

Del resto ”tutto è numero” era proprio il mantra di Pitagora, Parmenide ed Einstein, i quali avevano intuito unitamente al genio nolano Giordano Bruno, l’armonia delle parti differenti che costituiscono l’unità del tutto preconizzando “l’arte precisa delle cose che sono“. L’arte di svelare, cioè le relazioni nascoste fra le molteplici componenti del tutto del quale ciascuna di esse è anche il centro, per dirla come voleva Federico II di Svevia. Un’arte sicuramente trasmissibile e condivisibile nel tempo e nello spazio che rifiuta a prescindere l’egoismo autocelebrativo, altrimenti rischierebbe di ridursi alle effimere lusinghe dell’autocompiacimento.

Principi così fondamentali e paghi di certezza che il Principe di Capua, fecondo cultore di matematica e lettere, Federico di Svevia, volle introdurre in “De ars venandi cum avibus” (l’arte di cacciare con gli uccelli).

Si tratta di un’opera che, pur trattando di falconeria andava ben oltre l’arte venatoria praticata dal prodigioso sovrano svevo nelle valli e nelle pianure adiacenti all’antico Borgo longobardo di Casertavecchia. Con il predetto trattato, l’imperatore Federico, imparentato con la nobiltà ed i feudatari casertani, valicò difatti il sapere relegato all’ornitologia e all’esperienza per tratteggiare cruciali aspetti della conoscenza attraverso l’acume del simbolismo.

Il falco, prendendo quota si invola descrivendo con le sue “passate” le stesse spirali del DNA e di molteplici elementi della natura. Le medesime spire concentriche legate alla geometria del numero aureo succitato 1,618. L’uomo (il falconiere), d’altronde, non può sottomettere il rapace ma, con maestria e disciplina riesce ad imbastire un contraccambiato rapporto di fiducia con l’animale che gli consente di integrarsi attivamente con la natura di cui egli stesso è parte attiva e protagonista.

D’altro canto è il logos, ovvero la ragione dell’uomo, a gestire con perizia e responsabilità il “potere” che ha sulla natura attraverso la mediazione “matematicamente perfetta” del falco. Un’intermediazione che il volatile svolge avvalendosi dei segreti che la perfezione assegna ad una realtà per molti versi ancora sfuggente.

Purtroppo la ragione si sposa più con la giustizia (Dike) e la memoria (Mnemosine) che con la democrazia, come dimostrava il pensatore cilentano Parmenide quasi tremila anni fa. In effetti la detenzione di un “potere” così mirabile e straordinario come quello del “falconiere” presume sapienza, maturità, giudizio e saggezza fuori dal comune.

Sarà forse per questo che governare una città o una nazione e designarne gli amministratori non è per tutti, come sosteneva Pitagora? Il dubbio è legittimo e sorge spontaneo come pure la fascinazione verso l’euritmia dei numeri “sacri” che si insinuano nei diversi stili architettonici (gotico, romanico ecc) di torri e campanili fondendo le apparenti diversità geometriche nella compagine straordinariamente unica di Casa Hirta.

Una pletora di costanti, numeri decimali infiniti e proporzioni fisse fra rettangoli e quadrati pervade, dunque linee, superfici e forme architettoniche dell’antico Borgo casertano sino a spedire in visibilio le coscienze più avide di emozioni ed intelletto. Insomma, alla bellezza dei numeri non c’è mai fine, specie se essi dimostrano concetti latenti, verità imbarazzanti ed eredità culturali che né i casertani né le loro istituzioni locali riusciranno mai a percepire abbastanza.

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