Caserta (Nando Silvestri). Tempo e Natura, due concetti inscindibili, intimamente legati e, a loro volta, amarrati all’idea di “Essere”. Per descrivere l’Essere il noto pensatore e filosofo cilentano, Parmenide. quattro secoli prima della nascita di Cristo, ricorreva ad una figura geometrica perfetta e identica in ogni sua parte, lo sfero. Per questo, l’Essere veniva ritenuto “eterno e immutabile” e, successivamente, anche “infinito” dal parmenideo Melisso.
Sono proprio queste accezioni del Tempo e della Natura appena accennate a fondersi caleidoscopicamente nella Reggia di Caserta, avamposto ideale di fascinazione e sintesi di bellezza senza tempo, racchiusa dai Colli Tifatini a nord e il Vesuvio a sud, come una perla protetta da due guardie imponenti.
Da sempre l’uomo si illude di misurare il tempo per affrancarsi e distinguersi da chi lo ha preceduto e chi è destinato a seguirlo. A tale proposito l’uomo spera di appropriarsi in qualche modo dei suoi momenti attraverso la costruzione di opere di ingegno: gli orologi. Il fascino che la meccanica più complessa conferisce ad un orologio monumentale è solo una questione di un potere superiore. Una facoltà che lascia cioè scorgere l’impronta divina proprio nelle cose realizzate dall’uomo: come diceva il sommo pensatore nolano Giordano Bruno, “Deus est in rebus”. La mano “divina” che realizza l’orologio della Reggia Vanvitelliana, quello del Teatro San Carlo, quello del Palazzo Reale di Napoli e quello della piazzetta di Capri proviene dalla Basilicata e, precisamente, da Lagonegro, in provincia di Potenza. Una mano laboriosa che sembra uscire dalle favole più pittoresche e misteriose, quella del laboratorio della famiglia del signor Michele Canonico. Michele maneggia i complessi ingranaggi che i suoi avi assemblavano e concepivano per torri, campanili e monumenti senza celare un pizzico di sana nostalgia per le meraviglie della meccanica costruite dal padre e dal nonno, attualmente rimpiazzate da algidi accrocchi tecnologici senza pudore. Come asseriva Parmenide di Elea “tutto è parte di tutto”: anche la Lucania dei guerrieri che fecero tremare i legionari dell’Impero Romano diviene, dunque appendice “temporale” e parte integrante del magnifico complesso vanvitelliano.
Pochi sanno però che, a magnificare la Reggia di Caserta è anche la poesia, quella di Eugenio Montale intitolata “Nel Parco di Caserta”, contenuta nella raccolta “Le Occasioni”. Il poeta non si limita a celebrare la sontuosità della natura che si specchia nel Laghetto delle Ninfee (come molti affermano erroneamente), situato all’interno del Real Giardino Inglese del Parco. Montale intravede sempre il “male di vivere”, anche nelle amenità della natura e ne riesce ad oggettivare abilmente le ineffabili emozioni scaturite. L’immaginazione si incarna perciò nella realtà delle cose tangibili fino a rianimarle per incanto. I rami poderosi della conifera adiacente al piccolo ma suggestivo stagno sembrano, allora catene che imprigionano l’uomo e la sua coscienza in dimensioni caduche, effimere e, spesso prive di senso. Eppure la consapevolezza lucida e specchiata di profili esistenziali così pregni e ineluttabili rappresenta già un punto fermo, uno slancio capace di convertire il lazzo dolore in gorghi virtuosi, mediati dal barbaglio della natura languente. Peccato che quasi nessun casertano sia mai riuscito ad andare oltre le proprie percezioni e i luoghi comuni della nuda esteriorità.