Caserta (di Antonio Arricale). A Caserta il ricorrente dibattito sul Macrico si intreccia, in questi giorni, con una questione che il mitico Catalano di Quelli della notte avrebbe definito “terra-terra”, e che a noi pare paradossale per almeno due ragioni.
Della dismessa area militare al centro della città e del disegno di farla diventare un immenso polmone verde si parla, ormai, da diversi lustri, senza venirne a capo. E di volta in volta, non senza puntare il dito contro le ombre che la vexata quaestio si trascina dietro. Nell’ordine: dei palazzinari e della speculazione cementizia; del clero avaro e famelico (l’area è della Chiesa) che dalla cessione vorrebbe trarre una somma esosa; di diversi altri inconfessati interessi e, naturalmente, della politica. Che però latita. E non da ieri.
Dunque, il primo aspetto paradossale della vicenda, è che a parlare ricorrentemente di Macrico, al di là di una manciata di ambientalisti duri e puri (e forse anche un po’ ingenui) è in ogni caso soprattutto gente di sinistra, magari anche più in là dei democrat, comunque contigua al modo di pensare Pd, oltre ad un nucleo catto-comunista (ma la definizione non è più di moda) e, naturalmente, a un grumo di persone un tantino radical chic (sebbene poco radicale e poco chic).
Si tratta, in ogni caso, di gente che ha o dovrebbe ritrovare nell’attuale sindaco e maggioranza amministrativa gli interlocutori giusti per risolvere la questione. Ma così non è. Sindaco e maggioranza latitano. Al più rispondono nisba. In genere, si limitano a tacere. Inutile chiedersi perché, ma si può intuire.
Il secondo aspetto paradossale, invece, è rappresentato dal fatto che il dibattito intorno ai destini dell’ex Macrico si è nuovamente infiammato proprio mentre l’ordinaria gestione del verde pubblico, in città (e non solo), ha mostrato tutta la sua inconsistenza. Pardon, inesistenza.
Il Macrico, infatti, è tornato alla ribalta proprio mentre anonimi privati, nell’indifferenza generale, hanno capitozzato, per mere ragioni di bottega, gli alberi di centralissime piazze e vie; mentre tronchi di alto fusto si sono abbattuti al suolo solo occasionalmente per colpa del maltempo; e altre piante, alcune secolari, incombono pericolosamente oblique sulla incolumità pubblica sempre per la medesima ragione: incuria e abbandono, oltre al maltempo.
Ovviamente, a monte c’è un problema di risorse. Che non ci sono. La città è in dissesto, si ripete fino alla noia.
Certo – verrebbe da riflettere – un imprenditore privato difficilmente avrebbe avuto la possibilità di fallire per ben quattro volte di seguito (come è stato per il Comune di Caserta) riuscendo tuttavia a conservare la fiducia e il credito di clienti e consumatori (o, mutatis mutandis, dei cittadini). Di lui, già al secondo inciampo, si sarebbe parlato più propriamente come di un truffatore e guardato con diffidenza, non certo con la compassione che spesso si dà ad un imprenditore sfortunato.
Ma in politica è tutt’altra cosa. Non a caso, benché talvolta gli attori sono gli stessi che hanno causato i dissesti, si preferisce citare la frase di Joseph De Maistre: ogni popolo ha il governo che si merita, piuttosto che l’articolo 640 del codice penale.
Però indigna non poco, a fronte di un carico di tasse locali assai oneroso per i cittadini, sentirsi ripetere che non ci sono risorse per la cura del verde, il rispetto e la tutela ambientale, il decoro e l’arredo urbano. E ancora: per le scuole, il trasporto pubblico, le strade, l’ordine pubblico, la cultura… (l’elenco è lungo).
Ci piacerebbe, insomma, poter dire con orgoglio: Caserta è una città verde. Dobbiamo invece ripiegare, alla catalana, sul motto: Caserta città al verde.
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