Caserta (di Antonio Arricale). Semplificare. Velocizzare. Se ne parla da anni. Ce lo chiede l’Europa. Soprattutto con riferimento ai lavori pubblici, settore in cui mettere su un cantiere – quando ci si riesce – diventa non soltanto una fatica immane, ma spesso infinita.
L’esempio più eclatante, in provincia di Caserta – giusto per parlare di casa nostra – è quello del Policlinico. Avviata nel 2005, entro sette anni la struttura universitaria sarebbe dovuta entrare al servizio della facoltà di Medicina della Seconda Università di Napoli (cioè, di Caserta, che però alla fine è stata chiamata – chissà perché – Università della Campania). Di anni, invece, ne sono passati quasi venti e la struttura, poco più che abbozzata, si presenta con le gru del cantiere molto più spesso ferme, anziché in movimento. Del Policlinico, peraltro, ci si ricorda ormai soltanto sporadicamente, magari in rare occasioni convegnistiche, giusto per strappare un applauso di circostanza alla platea sempre più rassegnata per come vanno le cose; e forse anche per lavarsi un po’ di sporco dalle coscienze. Di questo scandalo, infatti, non ci si ricorda mai in occasione delle campagne elettorali. Perché una cosa è certa: a frenare, rallentare, frapporre continue pietre d’inciampo, procrastinare sine die la costruzione dell’ospedale universitario è solo la politica, non la burocrazia. Né c’entra più di tanto la vecchia legge sugli appalti.
Perché di quest’ultima, oggi, qui si parla: della necessità, cioè, di velocizzare il percorso di affidamento dei lavori pubblici, magari alla luce dei progetti afferenti al Pnrr che registrano un drammatico ritardo – come ormai pressoché ogni giorno, attraverso la tv di Stato, il governo ci fa sapere. Ma anche per evidenziare – come ha fatto notare il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia – “il rischio che, con il nuovo codice, la prestazione non sia né la migliore né quella più economica”. Oppure, per annotare che i ritardi, probabilmente, più che nella fase di espletamento delle gare (che pure ci sono) si registrano semmai nella fase di esecuzione dei lavori e, dunque, sulla qualità degli stessi. Aspetto, quest’ultimo, su cui il nuovo codice non assicura granché rispetto a ieri.
Ad ogni modo, imposta dal ministro e leader leghista Matteo Salvini, della nuova legge va detto, innanzitutto, che non solo semplifica le procedure in materia di lavori pubblici, ma addirittura taglia, senza troppe remore, nodi e nodini che fino a ieri ne impedivano una fluida e veloce applicazione. Poco importa se col rischio di esasperare distorsioni che pure erano già presenti nella vecchia normativa.
Tra molti punti pure interessanti, infatti, il nuovo codice degli appalti di fatto esclude dalle gare il 98,3% dei lavori pubblici limitando, nella sostanza, la possibilità di allargare la partecipazione a più operatori economici. Insomma, riduce drasticamente o annulla il gioco della concorrenza. La norma, infatti, prevede l’innalzamento a 5,3 milioni del tetto di spesa perché sia richiesta la gara pubblica. E, contestualmente, innalza pure la soglia per l’affidamento diretto di servizi e forniture a 150 mila euro (dalle attuali 40 mila). Un aspetto, quest’ultimo – come si diceva – che almeno in un primo momento ha fatto storcere il naso finanche a Giuseppe Busia (tralascio la lite da cortile che ne è scaturita con ascari e peoni della Lega prontamente scesi in campo) per il quale il rischio è “soprattutto nei piccoli Comuni” dove “questi contratti vengano stipulati in virtù di relazioni personali se non di parentela, anziché sulla bontà delle offerte o della qualità delle ditte”.
Insomma: “Sotto i 150 mila euro va benissimo il cugino o anche chi mi ha votato e questo è un problema”.
Difficile dargli torto. Anche perché, sempre per restare a casa nostra, in provincia di Caserta, i cugini non sempre vestono panni, come dire, di buona stoffa. Pensate, infatti, agli anni in cui l’ente Provincia aveva un ruolo ben più importante di quello attuale. Ebbene, provate a chiedere agli uffici tecnici (per inciso, vero nervo scoperto del sistema) di dov’erano oltre il 70% delle imprese edili che si accaparravano i lavori messi a bando o più semplicemente affidati da quell’ente? Ve lo dico io: erano ditte casalesi. Per carità, ottime ditte, condotte da ottime persone. Certo, non sempre. Ma il dato è questo.
E provate sempre a chiedere: di dov’erano la stragrande maggioranza di imprese ingaggiate per lavori, grandi o piccoli che fossero, a bando o affidamento diretto, programmati dalla più grande azienda della provincia, quella che un tempo si chiamava Ospedale civile? Avete indovinato. Sempre dello stesso comune. E la situazione non cambia, statene certi, in quei Comuni che periodicamente vengono “attenzionati” dall’autorità tutoria.
Dunque, il rischio paventato dall’Anac non si presenta per la prima volta. Il nuovo codice degli appalti sposta semplicemente l’asse in favore della velocità di affidamento dei lavori, ma rispetto alla trasparenza e alla concorrenza resta tutto come prima; magari semplicemente peggiorerà un quadro già nero.
A meno che non si cambi prospettiva. Non si cerchi, cioè, di migliorare le procedure di selezione del personale politico-amministrativo. Procedure che – come ho già scritto – l’attuale legge elettorale per i comuni non favorisce, ma anzi crea “ab origine” le peggiori condizioni di potenziali infiltrazioni, corruzione, precarietà e instabilità politica. Con tutto quel che ne consegue in termini di “best practices”, come oggi usa dire.
Prendersela con il nuovo codice degli appalti, perciò, non serve. Bisogna guardare altrove.