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Editoriale

Boia chi molla, ma non il MES

Roma (di Antonio Arricale) – Boia chi molla! Macché: mollano, mollano. Sul MES di sicuro molleranno. E così impareranno – rimettendoci la faccia, per quel che vale in politica e, soprattutto, per loro – che una cosa è governare, altra è fare opposizione.

Intendiamoci: neanche a me il Meccanismo europeo di stabilità piace.

Non mi piace, soprattutto come idea di sovrastruttura istituzionale: perché in un contesto di vera unione politica (diversamente, a che serve il Parlamento europeo?) dovrebbero essere le istituzioni comunitarie a garantire la stabilità finanziaria dei Paesi membri e non, invece, istituzioni intergovernative com’è appunto il MES o di tipo privatistico, come addirittura è la Banca centrale europea. Poi ci sarebbero, a dire il vero, anche altre ragioni tecniche, ma ora non lasciamoci distrarre né da queste, né dai discorsi sulle architetture istituzionali.

La riforma del Mes – ché di questo si parla e si sparla in questi giorni – se non viene ratificata dall’Italia (unico Paese nell’UE a non averlo ancora fatto) lascia comunque in vigore il vecchio Trattato, di cui siamo e restiamo soci, per così dire.

Infatti, giusto per ricapitolare. Sottoscritto nel 2012 – ripeto e sottolineo – al di fuori del quadro giuridico dell’Unione Europea, il MES fu pensato per concedere, a precise condizioni, assistenza finanziaria ai paesi membri che trovino temporanee difficoltà nel finanziarsi sul mercato. Capitale sottoscritto: 704,8 miliardi di euro, di cui 80,5 versati. L’Italia si è impegnata per 125,3 miliardi versandone già oltre 14. I diritti di voto dei membri del Consiglio sono proporzionali al capitale sottoscritto dai rispettivi Paesi. Germania, Francia e Italia hanno diritti di voto superiori al 15 per cento e possono porre il loro veto anche sulle decisioni prese in condizioni di urgenza.

Al momento, dunque, se non si ratifica la versione 2.0 del Mes, la sostanza del trattato, oltre a non cambiare nella sua applicazione più detestabile (quella subìta dalla Grecia, per intenderci) sortirà unicamente l’effetto di gettare discredito sul Paese e sui precedenti governi che ne hanno approvato le modifiche, non di abolirlo. Resta, poi, una questione di stile o di educazione istituzionale. Ma tant’è.

Ad ogni modo – scrivono i politologi – il braccio di ferro della maggioranza di governo sul Mes, più che tecnico in realtà è solo politico. Si utilizza il diniego come elemento di pressione per ottenere altro. Insomma, un ricatto. Da ambo le parti, beninteso.

Un gioco di forza, invero, che non è neanche simmetrico, dal momento che è l’Italia, oggettivamente, il soggetto più debole. Nel senso che, fatto da Roma, dovrebbe servire per indurre Bruxelles ad allentare i cordoni della borsa sui fondi del Pnrr. Da Bruxelles è utilizzato, invece, esattamente per il motivo contrario: non ti do i fondi se non approvi il Mes. Inutile sottolineare chi ci perde.

Ora, al riguardo, al di là delle corbellerie attribuite dalla stampa a Matteo Salvini (il quale – andando ad occupare paradossalmente lo spazio che era a destra di Giorgia Meloni e denunciando un’ignoranza macroscopica dei fondamentali – avrebbe detto: “I Buoni del Tesoro sono meglio del Mes”) a me sembra che i problemi sul tappeto per noi italiani e, in particolare, meridionali, siano altri. Primo fra tutti: la diminuita capacità di spesa delle famiglie. O, se preferite, gli stipendi che restano bassi e ancor più erosi dall’inflazione galoppante. E, dunque, la povertà che aumenta, soprattutto tra il ceto medio.

Stipendi che la Bce, dunque l’UE, agendo sui tassi di interesse con l’obiettivo di ridurre proprio l’inflazione (+6,1% a maggio) manovra, indirettamente, in modo tale da tenerli bassi, comprimendo la spesa e costringendo le famiglie ad indebitarsi oltre misura.

Illuminante, in proposito, il rapporto della Cgia di Mestre. Le famiglie italiane sono indebitate complessivamente per 574,8 miliardi di euro, con un carico medio per famiglia di 22,2 mila euro. E benché le famiglie più indebitate – il dato è tutt’altro che contradditorio – siano al Nord con la ricca Lombardia e 52 miliardi di euro sul podio (33,5 mila euro di debiti per famiglia) è al Sud, con Campania in testa e un indebitamento complessivo regionale di 35,1 miliardi, che il peso di 16 mila euro di debiti per famiglia ha una maggiore incidenza, dato che a Milano il reddito famigliare medio è di 35 mila 129 euro, mentre in Campania è di 24 mila 373 euro.

Insomma, se proprio una battaglia va fatta è per aumentare gli stipendi e spendere i fondi europei, mi pare. Guardare, insomma, la luna piuttosto che il dito.

Antonio Arricale

Giornalista professionista, direttore editoriale Casertanotizie.com. Socio Terra Nostra APS

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Antonio Arricale

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