Roma (di Enzo Palumbo). Silvio Berlusconi ha segnato un’epoca: nel bene, quando è riuscito a fermare la “gioiosa macchina da guerra” dell’ex Pci; nel male, quando ha dato vita alla stagione dei non/partiti di stampo proprietario che hanno portato alla deriva populista che c’è tuttora. Ovviamente, i partiti fondati sulle culture politiche e sulle visioni della società non li ha uccisi Berlusconi; si sono suicidati, prima coi comportamenti tutt’altro che virtuosi degli anni Ottanta e Novanta, poi con la pavidità manifestata dinanzi all’attacco dei pm tra il 1992 e il 1994 (inutilmente denunziata da Marco Pannella), infine con l’approvazione di una nuova legge elettorale, il cosiddetto mattarellum, che, con la scusa di dovere dare attuazione al referendum Segni, doveva servire a esorcizzare l’avvento della Lega, e che invece l’ha favorita coi collegi uninominali (ma si può essere così stupidi? Ebbene sì, i partiti di allora lo sono stati!).
Da qui, poi, le ammucchiate elettorali che ne sono seguite per 30 anni. Mentre il pentapartito di allora si cullava ancora nell’illusione di mettersi insieme nei collegi uninominali per rifare il sistema di prima pur in presenza di quella nuova legge elettorale, Berlusconi invece, prima di altri, col fiuto imprenditoriale che aveva connaturato tutta la sua vita precedente, lo ha subito capito e ha sfruttato quella legge a suo vantaggio dando vita alla prima ammucchiata elettorale della Seconda Repubblica, inventando due coalizioni territorialmente e politicamente contraddittorie (al nord con la Lega, al sud con Alleanza nazionale) e raggruppando nella sua nuova creatura (Forza Italia) tutto quel che restava del pentapartito della Prima Repubblica, dando così inizio alla stagione dei partiti di proprietà del leader e della demagogia populistica delle promesse elettorali e delle delusioni post-elettorali, ma anche alla stagione dell’odio politico e dell’invidia civile, che ha poi avuta la sua sublimazione nel 2018 col successo travolgente del Movimento 5 Stelle.
A Berlusconi, noi tutti (ovviamente, in quanto liberali) dobbiamo molto per avere fatto nel 1994 quel che Segni e Martinazzoli non sarebbero stati capaci di fare nella competizione con la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto; dobbiamo assai poco per come ha poi governato, quasi sempre nell’interesse suo e delle sue aziende; e nulla per non essere riuscito a realizzare quella rivoluzione liberale che aveva promesso, e che con la forza elettorale della sua creatura politica poteva consentire ad altri, i liberali veri che pure stavano con lui, di realizzare una cosa che lui non poteva fare in ragione degli interessi che gli premeva di coltivare “in primis et ante omnia”.
In ogni caso gli dobbiamo ora il rispetto che si deve a un uomo geniale, generoso e disponibile con tutti, amici, ma anche avversari e addirittura nemici. Duole al nostro sentimentose dovremo constatare che i primi possano presto dimenticarlo e in qualche caso anche ripudiarlo, e che i secondi continuino a odiarlo anche post mortem, come qualche giornalista “travagliato” dell’invidia sta già intingendo la sua penna nell’inchiostro dell’odio! Che riposi in pace!