Dopo la morte di Cristo e dei suoi Apostoli vi furono tanti medici che curavano gli ammalati
ottenendo a volte guarigioni miracolose. Alcuni di questi effettivamente, esercitavano la Medicina, ma la maggior parte svolsero attività medica non documentata e, per questo, spesso circondata da leggenda. I Santi Ursicino, Anastasia, Zenaide, Antioco di Mauritania, Leonilla, Medico martire (originario di Otricoli in provincia di Terni), Biagio, Alessandro, Cosma e Damiano operarono molte guarigioni miracolose ma, come già ho scritto in altre occasioni, non fu tanto la scienza umana che salvava quelli che ricorrevano alle loro cure quanto l’aiuto della Grazia Divina.
Oggi scrivo su un periodo particolare dopo la morte di Cristo duranti il quale avvennero fatti di cui abbiamo la certezza. La città di Tebe, negli anni compresi tra il 1600 e l’800 prima della nascita di Cristo, fu un grande centro di civiltà e di cultura. Fu la capitale di quella regione meridionale dell’Egitto che da essa assunse il nome di Tebaide. Nel tempo anche la città di Menfi diventò centro di cultura e lentamente ma inesorabilmente Tebe perse il suo primato. I suoi splendidi edifici andarono in malora ed infine furono demoliti da Cambise (grande re dell’impero persiano e primo faraone persiano, dopo aver conquistato l’Egitto nell’anno 525 a. C.)
Successivamente, durante il dominio di Roma, continuò la decadenza di Tebe e la regione che da essa prendeva nome si andò progressivamente spopolando fino a diventare un deserto. In quel luogo andarono a vivere i primi anacoreti, cioè quei religiosi che abbandonavano la società per condurre una vita solitaria dedicandosi all’ascesi, alla preghiera e alla contemplazione. Quella regione desertica si popolò allora di gente che pregava e non parlava, Queste persone trascorrevano le loro giornate impegnate nel lavoro, dormivano di notte solo pochissime ore e mangiavano meno del necessario.
L’anacoretismo come fatto storico non fu un’istituzione nata con il cristianesimo. Si trattava, in
effetti, di una scelta di vita che molti popoli, specie orientali, avevano adottato già prima della
nascita di Cristo. La mitezza del clima, la fertilità del suolo, la possibilità di vivere con pochissimi mezzi, favorì il desiderio che molti ebbero di vivere isolati, immersi nella grande madre natura.
Tra queste comunità ebbe una particolare importanza la setta dei Terapeuti che, insieme a quella degli Esseni, popolavano le regioni desertiche dell’Egitto e della Palestina. I Terapeuti abitavano le rive del Mar Rosso e di essi Plinio, il grande naturalista romano scrisse: Gente singolarissima, senza donne, che ha rinunciato ai piaceri e vive povera tra le palme; sussiste da secoli senza figliare, sì feconda è per lei la sazietà delle altre fogge del vivere. Il nome di Terapeuti ha però solo un significato morale e simbolico e le persone se lo si attribuirono perché volevano recuperare la sanità dell’anima e speravano, con l’esempio, di guarire coloro che si trovavano nelle loro stesse condizioni.
Non differenti dai Terapeuti furono gli Esseni, altra categoria di persone viventi nella
Palestina in solitudine, in mezzo alle palme, senza denaro e senza donne, rinunciando a qualsiasi altro piacere carnale. Plinio scrisse che senza mai generare questa gente si rende eterna da migliaia di secoli, tanto feconda è per essi l’altrui penitenza. Mentre gli Esseni e i Terapeuti ricercavano la solitudine quale medicina spirituale per ricavare da essa un beneficio diretto, per gli anacoreti cristiani la solitudine non fu che un mezzo per ricongiungersi a Dio e fu sempre accompagnata da durissime penitenze, da veglie e fatiche che non sarebbe stato possibile procurarsi vivendo in mezzo ad altre persone. Il Monachesimo e il Cenobitismo, nel senso inteso dai Padri della Chiesa, rimasero delle istituzioni proprie del Cristianesimo lontane da altre istituzioni simili. Il Monachesimo vero o Anacoretismo ebbe inizio nella Tebaide nel secolo III durante le persecuzioni di Decio e di Valeriano.
Dopo poco tempo nacque il Cenobitismo. Queste due forme non devono essere confuse. Monaco e Anacoreta è infatti colui che vive da solo in un luogo appartato, lontano del consorzio umano. Il Cenobita è, invece, colui che vive in comunità. Il primo che iniziò la vita anacoretica fu S. Antonio Abate. Il primo che iniziò la vita cenobitica fu San Pacomio. Siamo nel terzo secolo dopo Cristo in piena epoca di persecuzioni cristiane e qualcuno ha ipotizzato che la tendenza ad isolarsi nel deserto fosse dovuta alla paura del martirio. Ciò non poteva essere vero perché i cristiani erano abituati a sopportare tutti i mali ma sapevano che per esporsi volontariamente ad essi ci doveva essere una legittima occasione. La legge del martirio escludeva che il cristiano si esponesse volontariamente al martirio per riguardo verso i deboli e per pietà vero i persecutori ma, se necessario, avrebbe dovuto accettarlo. Nel primo caso si sarebbe trattato di temerarietà e, nell’altro caso, di vigliaccheria. In altre parole se un cristiano avesse voluto sfuggire alla persecuzione non avrebbe avuto significato sostituire il martirio con la scelta di andare a vivere in un deserto. Per quanto riguarda l’igiene della vita monastica si potrebbe pensare che coloro che trascorrevano in solitudine la propria vita passassero le giornate in ozio e che l’allontanamento dalla comunità umana rappresentasse per loro l’abolizione da ogni cura e di ogni preoccupazione. La vita di quei Padri del deserto era intensa di lavoro ed era affaticata dalle veglie protratte e regolata dalla più severa limitazione di cibo che spesso diveniva un vero e proprio digiuno. Era inoltre tormentata dalle tentazioni continue contro i desideri della carne che la preghiera e l’isolamento dello spirito, non riuscivano a cancellare.
Uno dei Santi che vissero questa vita di sacrifici, descrisse le tentazioni che riceveva. Aveva visioni di nobili matrone, di seducenti donne che dalla lontana metropoli, venivano a turbarlo. Quelle visioni sembravano così vere e reali che le sue narici erano impregnate dell’acuto profumo dei loro unguenti. I monaci compresero che alla base della vita cenobitica vi doveva essere la preghiera e il lavoro. Ora et Labora fu il motto che tre secoli dopo S. Benedetto introdusse nel nostro monachesimo. Il lavoro era indispensabile per vincere il sonno durante la notte. Nei monasteri si esercitavano tutti mestieri. Vi erano tessitori, sarti, conciatori, calzolai. Il vitto era scarso. I monaci o anacoreti mangiavano erbe bollite senza alcun condimento o, in alternativa, mezzo pane al giorno o cinque fichi secchi. Solo in seguito a questo cibo, così scarso, venne aggiunto qualche altro alimento facendo però assoluta esclusione di carne, formaggio, vino, salsa e pesce salato. Il pane era secco ed era una specie di galletta. Il pasto unico si faceva dopo il tramonto del sole ed era regola comune che jejunium monachotrum fosse usque ad solis occasum, cioè che il digiuno dei monaci durasse fino al tramonto del sole. Diceva un monaco egiziano che il sole non lo aveva mai visto mangiare. Il sonno, come il cibo, era assai limitato. Verso la metà della notte e precisamente al primo canto del gallo i monaci si alzavano per la preghiera. Il periodo del sonno era per i monaci sempre limitato a quattro ore. Vi era un monaco incaricato di svegliare i fratelli dormienti e, per
svolgere questo compito, cioè per conoscere l’ora si regolava in vari modi. Si riferiva al canto del gallo, al corso delle stelle, al tempo impiegato da una candela per consumarsi, alle clessidre, agli orologi ad acqua. L’uso delle sveglie risale al tredicesimo secolo quando furono inventate dal monaco Bernardo Cassinese morto nel 1282. Sembra che queste abitudini di vita fossero utili, in particolar modo, per la longevità dei monaci. San Paolo, infatti, visse 113 anni; San Macario il Giovane ne visse 100; Schenute di Atripe ne visse 118, S. Antonio Abate 105 e gli altri vissero quasi tutti tra gli ottanta e i novanta anni. Dobbiamo allora credere che molte limitazioni, che a noi sembrano contrari alla vita, in realtà non lo sono se sono unite ad una fibra robusta.